Musica

...la musica è veramente il linguaggio dello spirito. Esprime i nostri sentimenti più immateriali, interiori, che stanno quasi al confine fra i sensi e di qualche cosa al di là, in una sfera religiosa, che appena riusciamo a indicare con alcune parole astratte: tale ad esempio, è la musica dei grandi preludi per organo di Bach...

Da una lettera alla figlia, 2 maggio 1947

La Musica, esperienza essenziale che illumina la visione del mondo

nelle parole della figlia Selina

La Musica fu lo sfondo e l’atmosfera entro la quale si svolse tutta la vita di Massimo Sella, e fu esperienza essenziale che illuminò la sua visione del mondo. Quando nacque e durante l’infanzia, adolescenza e prima giovinezza, la musica risuonava nella grande casa-monastero, retta dalla nonna Clementina. Racconti famigliari narrano che in una delle cappelle della cosiddetta Biblioteca - in realtà una parte della Chiesa che era stata separata da un alto muro – alcuni membri della famiglia suonassero insieme musica da camera.

Queste notizie, da narrazione famigliare, sono forse un po’ vaghe, ma è certo che il piccolo Massimo sotto lo sprone e la guida della madre Clara, pianista ella stessa, iniziò e costantemente perseguì lo studio del pianoforte, in seguito con altri maestri. Sviluppò man mano il suo talento fino a raggiungere un alto livello di competenza tecnica e soprattutto d’interpretazione musicale profonda, come molti testimoni autorevoli hanno sostenuto, accostandolo, per lo stile e la passione musicale, a Cortot e a Richter.


La musica del pianoforte, che suonò lungo tutto l’arco della vita, divenne fondamentale, direi, nel suo sviluppo interiore e nel suo spirito. Un vissuto, una spiritualità che solo la musica può dare.
Trovò in Alfonso Sella un successivo mentore musicale: Alfonso già da me citato come figura fondamentale nello sviluppo di Massimo adolescente, era un pianista di alta qualità oltre che uno scienziato, un fisico accademico e professore alla Sapienza di Roma.

Studente di Scienze Naturali a Roma, nella Torre dei Capocci, che era la sua abitazione, Massimo possedeva un pianoforte a coda, generosamente concessogli dal padre; e così in seguito, sposatosi e divenuto assistente del Prof Grassi all’Università La Sapienza, perseguì la sua passione nella successiva dimora, dove viveva con la moglie Edvige e i figli Alfonso e Luca.

Frequentò concerti con amici artisti e musicisti.
Era noto in famiglia il suo racconto, che trasmetteva all'ascoltatore con gesti drammatici la sua entusiasmante esperienza dell’ascolto del grande pianista e compositore Busoni che suonava al pianoforte, sul palco della sala del Teatro Adriano, i grandi Preludi e Fughe di Bach, da lui stesso trasferiti su pianoforte.

Nelle successive case in cui la famiglia visse, le note del pianoforte circolavano libere:  fin tardi nella notte, attraverso le porte lasciate aperte, gli abitanti ascoltavano e apprendevano senza saperlo le musiche di Scarlatti, di Bach, e via via di tutti i successivi compositori classici polifonici fino a Beethoven, Ravel e Debussy.
Il suo repertorio era completo e poteva leggere a prima vista ogni spartito.
Accompagnandosi al pianoforte, Massimo cantava con bella voce baritonale ed evidente piacere diversi lieder di Schubert, di Schumann e di altri. Non pare tuttavia si sia cimentato con la musica dodecafonica e Schönberg e seguaci.


Dal 1923, Massimo fu residente stabile a Rovigno, città la cui bellezza e cultura egli amò profondamente e dove ebbe a disposizione un pianoforte Bechstein da gran concerto, dono dell'amata moglie Edvige.

Durante le belle giornate, quando dalle finestre aperte, prima dell’Ampelea, poi dall’Albergo Adriatico, dove trascorse gli ultimi anni di Rovigno , si spandeva la musica del pianoforte che egli suonava, la gente fuori si fermava affascinata ad ascoltare.

A Rovigno, come precedentemente a Biella, iniziò anche rapporti con musicisti del luogo. Particolare fu certamente a Rovigno quello con il maestro Fabretto, direttore della banda municipale: insieme riuscirono a trasformare la banda in orchestra sinfonica, introducendo i complementari musicisti di strumenti ad arco. Nella carpenteria dell’Acquario furono costruiti i necessari leggii e per mesi questa nuova orchestra continuò a ritrovarsi nella grande sala della casa di Massimo e Edvige per le prove di esecuzioni "di musiche di G.S. Bach, di L.V. Beethoven ed altri", come si può leggere nella locandina del concerto che eseguirono nel 1933 a Rovigno a beneficio della Croce Rossa.


Perduta Rovigno in seguito agli eventi bellici, con la cessione dell’Istria alla Jugoslavia, raggiunta fortunosamente Trieste, Massimo ritornò a Biella, ma visse la maggior parte del tempo a Venezia dove il Consiglio Nazionale delle Ricerche gli aveva dato alloggio e una palazzina, nella speranza, poi svanita, di ricostituire l’Istituto di Rovigno. Visse nella casa della figlia sposata a un veneziano, dove ebbe un pianoforte a coda Steinway: perduto era quello di Rovigno. Riprese a suonare e si può ben intuire che questo sia stato per lui un grande conforto: fu allora che la casa della figlia risuonò delle sue note attraverso le porte aperte, toccando l’animo dell’ ultima generazione.

Una mattina a Venezia, nel 1957, colpito dal primo ictus, si rivolse ai figli con questa frase: "La morte mi ha dato un primo colpetto". Sebbene una parte del corpo fosse leggermente paralizzata, suonava ancora come poteva. Un giorno, seduto al piano, con una mano sulla tastiera e lo spartito de l’Arte della fuga di Bach sul leggio disse: "...e dopo questa nota non suonò più".

Nel presentimento della propria morte, parve chiamare vicino a se il musicista che fra tutti aveva più amato.

Aveva scritto in una lettera alla moglie Edvige di data incerta: "...se si può fare una graduatoria per i luoghi come quella per le persone, San Gerolamo occupa il primo posto nel mio cuore".

"Quando diciamo 'in questo luogo andrò a morire' mi pare si dica tutto”.

Egli morì a San Gerolamo il 4 Settembre 1959.

Testo scritto per la figlia Selina, nella speranza di avviarne
la passione e la competenza musicale.

Rovigno 17 giugno 1943

Mia cara Selina,

         sento dalla tua lettera che il maestro Nardi di Firenze ha fatto nascere in te una gran passione per il piano e questo è ancora più essenziale degli eccellenti consigli che ti ha dato. Dei suoi consigli poi, il più importante è quello di studiare quattro ore al giorno. Non avrai sempre la possibilità di dedicare tanto tempo al piano, perché non dovrai trascurare altre materie, ma se saprai impiegare bene i ritagli di tempo, riuscirai a far progressi anche nei periodi in cui la scuola t’impedirà uno studio assiduo; infatti a mano a mano che si progredisce, suonare diventa un piacere sempre maggiore e quindi un riposo anziché una fatica. Ma certo un po’ di fatica ti costerà educare la tua mano e non illuderti che ciò si raggiunga in breve tempo. La perfezione è una meta mobile che sempre s’allontana. E l’arte, nella tecnica e nello spirito, non è un vaso che si riempia una volta tanto, bensì un lago che s’allarga per quanta più acqua ci si versa, diventando sempre più grande, profondo e bello.

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E’ giusta la classificazione dei pianisti in coloro che articolano troppo e ottengono quindi suoni secchi e scarsamente legati e in coloro che articolano troppo, perdendo in chiarezza e impastoiando i suoni. In parte è questione di temperamento e perdano di grassezza e magrezza delle mani, che sono forse un’indizio del temperamento. La giusta norma sta probabilmente nel mezzo o piuttosto nell’adozione di un modo o dell’altro in conformità della musica; il perfetto pianista deve infatti saper passare da questo a quello a seconda dell’effetto da raggiun-gere. I francesi che amano la raffinatezza propendono per un’articolazione moderata; appunto perché il piano è uno strumento a percussione essi tendono ad attenuare per quanto è possibile quella secchezza insita in esso. Inoltre è certo che una rapidità maggiore viene raggiunta sollevando poco le dita dai tasti, è una questione di meccanica; gli effetti di glissando frequenti nelle musiche di Debussy e di Ravel sono ottenibili solo con un’articolazione ridottissima.

Ma intendiamoci, articolar poco non significa articolar male, e ritengo che si debba far molto esercizio esagerando nell’articolazione per riuscire a suonar bene articolando poco. In modo speciale tu che difetti appunto nell’articolazione dovrai esercitarti ad articolare ampiamente, chiaramente e uniformemente.

Non vorrei che ti facessi un concetto troppo semplicista della tecnica del pianoforte, che è assai complessa. Dalla posizione quasi orizzontale delle dita che qualche volta, se pur di rado, s’impiega per ottenere nei movimenti lenti degli effetti morbidissimi di suoni specialmente se ripetuti, si passa a quella media a dita poco ricurve con scarsa articolazione nel legato e a quella estrema a dita molto ricurve e pronunciata articolazione nel brillante poco legato. Vi è poi tutta la gamma dello staccato in cui l’articolazione può trasportarsi dalle dita al braccio, e cioè a) dita e polso rigidi e articolazione al gomito per effetti pesanti, b) articolazione al polso per staccati leggeri e infine c) semistaccati ottenuti con le sole dita nei casi in cui la rapidità dell’esecuzione non consente lo staccato con il polso. E ancora ciascuno di questi modi può essere impiegato in maniera mista.

Gli aspetti della tecnica sono infiniti. Si deve acquistare la capacità delle articolazioni combinate per l’esecuzione delle note doppie o multiple, cioè dei passaggi per terze, quinte e così via. La simultaneità nelle note degli accordi. La valutazione delle distanze anche senza l’aiuto degli occhi per colpire con precisione i tasti a distanza. La giusta tenuta di ciascuna nota è importante non soltanto per l’effetto musicale ma abitua anche le dita all’indipendenza reciproca; e questo dell’indipendenza delle dita in una stessa mano e in mani diverse (la primitiva tendenza è quella dei movimenti simmetrici, in quanto siamo animali a simmetria bilaterale; nelle scale per esempio il moto più naturale è quello contrario) richiede un lungo esercizio (utilissimi gli esercizi con le dita tenute abbassate sopra una serie di tasti, salvo il movimento di alcune di esse in combinazioni diverse) e si acquista interamente solo suonando molta musica polifonica. In una stessa mano l’indipendenza deve arrivare anche a eseguire una parte legata e una parte staccata. Indipendenza delle due mani nell’eseguire due figurazioni diverse, per esempio terzine e quartine. E anzitutto si deve raggiungere l’eguaglianza delle dita, correggendo in questo la natura che ha creato alcuni diti più sciolti e altri più legati. La pratica e quindi lo spontaneo impiego di una corretta diteggiatura è indispensabile a qualsia-si progresso, dato che solo una razionale successione dei movi-menti assegnati a ciascun dito rende loro possibile di entrare utilmente nel giuoco.

Base di tutto è la regola del minimo sforzo. E ciò dal semplice movimento di articolare le dita ai movimenti coordinati più complessi. E perciò sin dal principio occorre sforzarsi di acquistare l’abito del buon portamento delle mani, che debbono esser mantenute piane a giusta, cioè moderata distanza dalla tastiera e leggermente divaricate in fuori la sinistra verso sinistra e la destra verso destra; salvo a fruire di una maggior libertà quanto tale abito ormai si possiede. Giustamente il maestro Nardi ti ha spiegato che il braccio dalla punta delle dita alla spalla dev’esser considerato come una serie di pezzi articolati che continuano la serie di sei leve che vanno dal tasto al martelletto. Non debbono esservi attriti, movimenti parassitari, diseguaglianze nelle serie omologhe di leve se si vuole che i suoni siano puri, che non vi siano durezze che non si avverta lo sforzo di chi suona e lo spirito sia libero dalla materia.

Per raggiungere questo occorre anzitutto che il cervello non pesi con un controllo troppo minuzioso sui muscoli; occorre liberare le braccia e le mani dal cervello. La tecnica è perfetta solo quando obbedisce movimenti rifletti. Il falciatore fa un buon lavoro solo quando si dimentica di pensare all’inclinazione di dare alla falce, il pianista eseguirà bene un passaggio solo quando le sue dita faranno automaticamente il loro lavoro. Il cervello deve entrare solo nel controllo generale, non come un sovrastante che voglia far tutto lui. Agli inizi naturalmente esso ha molto più da fare per raddrizzare questo e quello ma presto le mani diventano molto più abili di lui e più rapidi progressi fa chi più presto si emancipa e tale facoltà distingue anzi i pianisti nati dai pianisti per forza. Qualche volta fa pena vedere i principianti con le mani dure e raggrinzite come colpite da paralisi e questo perché sono imbrigliate dal cervello come cavallini sotto le mani di un cocchiere improvvisato; meglio in questo caso lasciare i cavallini liberi.

La vera alta funzione del cervello è quella che si esplica nella interpretazione, nello stile, nel trasformare l’emozione in elemento dinamico musicale, e allora artista ed esecutore perfetto è colui che dimentica completamente tutto il resto. Il cervello è allora il direttore d’orchestra e le dita sono i diversi strumenti.

Ma insomma io non intendo ora scrivere un trattato sul pianoforte; mi son lasciato andare a parlarne un po’ perché il tuo entusiasmo mi ci ha trascinato e perché nella tua lettera dimostri di aver compreso i primi ammaestramenti del professor Nardi. E’ una vera fortuna che tu abbia potuto avvicinarlo, grazie alla intelligente e affettuosa iniziativa di Alice e attendo una seconda tua lettera in cui dica della prima lezione.

Ti ho scritto anche perché l’entusiasmo non ti conducesse all’errato convincimento che basti la volontà del metodo, quale ti può essere insegnato da un maestro di vaglia, a imparare rapidamente il pianoforte, più rapidamente certo e meglio che senza tale ausilio ma sempre e solo con lunga assidua applicazione, e se ti illudessi del contrario finiresti poi con lo scoraggiarti.

Ancora due osservazioni, riguardanti lo studio e la lettura, e poi chiudo questa lettera già troppo lunga. Si studia eseguendo giornalmente degli esercizi puramente tecnici e portando dei pezzi musicali prescelti alla maggior perfezione tecnica e interpretativa possibile (questa seconda parte diventa a un certo momento la parte fondamentale). Non bisogna tuttavia credere che la perfezione dipenda solo dallo studio; a un certo momento ci si accorge che nessuna insistenza potrebbe far avanzare la perfezione del nostro pezzo, infatti in ogni stadio non si può oltrepassare un certo limite e sarebbe inutile anzi dannoso voler sforzare il dio tempo. Meglio allora lasciare per qualche tempo il pezzo e riprenderlo in seguito e non una ma più volte, per portarlo a una perfezione sempre maggiore.

Le cose imparate, infatti, hanno bisogno di un certo tempo per inserirsi nel meccanismo cerebrale e diventar parte integrante di esso, specialmente quando da esse dipendono azioni di carattere riflesso. Per questo valore, guidar l’auto, andare in bicicletta s’insegnano meglio con brevi lezioni a intervalli e non si possono imparare in una sola lezione anche se complessivamente più lunga. E’ inoltre da considerare la fatica, come fattore negativo. E’ certo dunque che anche lo studio del piano rende di più se giudiziosamente frazionato e a riprese.

Per quanto riguarda la lettura, che si pratica per acquistare prontezza, conoscenza musicale e per svago, il modo di eseguirla non è senza importanza per far progressi nel pianoforte: è utile cioè ripetere due o tre volte i brani, cercando di migliorare la diteggiatura e l’esecuzione e indugiandosi su alcuni passaggi anche a mani separate. Tutto sta a crearsi l’abitudine, poi la si segue inconsapevolmente.

Ed ora cara ti lascio scrivere due righe ad Alice e domandarle ancora se può lasciar venire Aline con te a Rovigno. Tu però non devi insistere troppo presso di lei, per non riuscire importuna e perché non è delicato pensare che Alice si lasci sforzare a una decisione di una certa importanza dalle tue insistenze.

Scrivimi quale è il valzer di Chopin che danzate e di cui vorresti avere il disco. Dammi una lista dei dischi delle tue danze che ancora non possiedi. Ti abbraccio, cara.




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